VITA INTERIORE: L’EPISTOLARIO

La vicenda vitale dell’Alfieri è già di per sé profonda prova della singolare e possente personalità alfieriana, della sua novità storica, della sua rappresentatività di una esperienza di crisi nell’ingorgo dello sviluppo e della crescente difficoltà della civiltà illuministica e dell’erompere (a vario livello di autenticità o di moda) di istanze preromantiche, che appunto nel modus vivendi e nell’opera poetica dell’Alfieri raggiungono la loro massima tensione e necessità. Donde l’appassionato amore dei romantici europei per la Vita alfieriana, spesso preferita alle tragedie per la sua esemplarità di un modo di vita nuovo, per quella forza di una personalità tutta “carattere” e tutta “natura”, dotata di una resistenza invincibile di fronte al costume predominante, di una inconformabilità che tanto colpiva e attraeva il Leopardi. Il quale dell’Alfieri fece appunto l’esempio massimo di un tipo umano eroico e tutto “carattere”, del grande scrittore originale perché libero e in “opposizione” permanente col tempo e i governi e che grande non può essere se non inclinato straordinariamente alle grandi azioni[1], mentre ne aveva esaltato già prima le “sante” parole, i principi di assoluta intransigenza e dura severità, e la guerra mossa «in su la scena» «a’ tiranni»[2]. E in zona risorgimentale il piemontese Ornato poteva parlare dell’Alfieri come del «nostro Padre», del nostro «santo», di fronte alla cui immagine, nell’anniversario della sua morte, aveva bruciato una gran quantità di «sonetti d’occasione, per messe, per nozze», associando cosí al culto per l’uomo eroico e fondatore del sentimento nazionale quello per il poeta e promotore di una nozione del letterato nemico di ogni letteratura frivola e commissionata[3]. E certo, pur tenendo conto dei caratteri esaltati di simili agiografie (che finirono poi per provocare le immagini opposte di un Alfieri politico e non poeta), la piú corretta interpretazione storica della personalità alfieriana non può non mettere in primo rilievo questa sua forza di rottura, questa sua energia di carattere, questa sua vissuta esperienza dell’“individuo” appassionato, in lotta istintiva con le idee e le convenzioni del proprio tempo e con ogni specie di conformismo, di moda, di tradizione passivamente accettata, di ogni credenza dogmatica, di ogni cultura livellante, cosí come, al fondo, di ogni limitazione delle sue esigenze autentiche di assoluta libertà.

E, d’altra parte, proprio a correggere il pericolo di trasformare il vigoroso volto umano dell’Alfieri in una maschera rigida e scolastica (usata magari, in vecchie pedagogie, in appoggio al culto del volontarismo: «volli, sempre volli, fortissimamente volli»), occorrerà insieme insistere sul fatto che l’energia alfieriana, radice essenziale della sua presenza storica e poetica, non è una forza astratta ed assurda, disumana, ma nasce nella concreta e ricca vita di una personalità forte e complessa, capace di moti umanissimi e sin delicati, pronta ad aprirsi anche a fantasie dolci e a sogni di saggezza e di calma, a malinconie non solo «orribili» ma invece, a volte, soavi e consolatrici.

Al centro, ripeto, una forza e una scelta aristocratica (o se si vuole, con il Goethe, arciaristocratica) di persone, di affetti, di idee a cui aderire con passione; ma su quella base, e nel cerchio di quella scelta, una vita sentimentale tutt’altro che monotona e rigida.

In tal senso documento essenziale, in una zona fra biografia e opera letteraria, che pure attrae elementi piú autobiografici di opere letterarie come le Satire e le Rime, è l’epistolario, solo in tempi recenti giustamente valorizzato anche nelle sue qualità di prosa e di stile.

Si rilegga cosí la lettera al Bianchi da Colmar (29 novembre 1785) e si faccia attenzione non solo alla vicinanza a certi toni della Vita, che vennero preparati certo nelle lettere, ma a questa nitidezza poco colorita e cosí intensa, a questa viva immersione del possibile quadro paesistico in un senso di vita di sentimenti non eccezionale e pure poetico, calcolato per un tono medio, non per un pezzo di bravura, intriso nella stagione, nell’ora, nello scorrere del tempo e dell’attività del poeta. Una speciale aura poetica sale da questa lettera nel suo tono confidente e affettuoso, nel suo queto svolgersi fantastico nel senso del paesaggio e del tempo, nel sapore delle abitudini care di lavoro e delle fantasticherie sentimentali intorno ad alcuni affetti essenziali:

Amico carissimo. Appunto tornando da un piccolo viaggietto in cui accompagnai la Signora verso Parigi, dove sarà a quest’ora, ho ritrovato qui la sua carissima dei 13 corrente scritta di Montechiaro, che mi è pervenuta in 14 giorni; e spero che d’ora innanzi le mie le perverranno colla stessa diligenza, indirizzandole, come ho fatto l’ultima, per Basilea, e Torino. Le parlo di nuove lettere, e tacitamente quello abbastanza le dice, ch’io non posso venir costà per quest’inverno. Le ragioni sono: prima di tutte, il voler essere piú vicino alla Signora; e qui lo son tanto, che il quarto, o quinto giorno la posso vedere, e due volte in settimana averne, e mandarle le nuove. Questa, presso un cor come il suo, son certo che mi vale per ogni altra discolpa; ma vi aggiunga la infingardaggine mia, l’abitar quel luogo dove sono stato con essa, e dove ho ferma speranza di rivedervela; l’aver qui i miei libri, e scritti, e copista, e tutti i ferri dell’arte, in una casa molto allegra, ben esposta, ben comoda, e riparata, i cavalli in una ampia, e nitida stalla tutti insieme; il non udir mai pettegolezzi di nessuna specie; il non veder nessun curioso; l’essere lontano dalla città tre miglia, che è poco per averne le cose necessarie, e abbastanza per non averne le noje, le puzze, i lastrichi, i rumori, gl’investigatori: tutte queste cose m’hanno risoluto a star qui. Glie ne ho annoverati i beni, ora glie ne dirò i mali. Il clima, che comincia a pungere; però fin ora non c’è neve affatto, ma piova assai, e vento, e di tempo in tempo del ghiaccio; pure da Settembre in qua, tre o quattro giorni soli non sono potuto uscire, e i cavalli invece escono ogni giorno; ma il buono verrà verso Natale: lo aspetto con intrepidezza. Inoltre son solo, e non ho con chi leggere, né parlare, e la gente che potrei trovare a Colmar, non mi sarebbe sollievo, ma noja. Dai pochi giorni che sono qui solo, già ho visto che mi ci avvezzo; ed ella sa quante volte ho desiderato d’essere in villa cosí, e che non ci sono mai stato per mancanza d’opportunità, e forse anche di coraggio. Ora che mi ci trovo, e che posso a mio bell’agio librarne il bene, ed il male, trovo nondimeno che il bene la vince, e spero d’avvezzarmici a segno di starci gran parte, se non tutta la vita. Ma non dico già sempre qui; ci dobbiamo ravvicinare, e rivedere, solamente che mutino le circostanze: e la villa in Italia, con comodi eguali, deve essere di gran lunga piú piacevole, che la villa in questi climi sconsacrati. Le dipingerò questa ove sono, che è pur lieta quanto lo comporta il paese. Ella s’imagini un piano immenso come quello di Pisa, che va dal Mezzogiorno a Settentrione, in mezzo di cui passa il bellissimo fiume Reno, che farà sei Arbie almeno. Da Levante, e da Ponente, una catena di monti poco piú alti di quelli dei Bagni a Pisa; ma quelli di Ponente massime, alle falde de’ quali io sto, son tutti còlti: vigne fino a mezzo colle, poi selve dietro fino alla cima, parte di castagni, parte d’abeti. Il piano da questi monti agli altri col Reno in mezzo, dove piú, dove men largo, è sempre almeno di dieci miglia, sicché i monti di Levante che mi stanno in faccia, e son piú alti, e tengon dell’alpe, bastano per riposar l’occhio da quell’immenso piano, ma non sono presso abbastanza per rattristarlo col loro orrore. La casa è posta in alto non piú che quella del Testa sul monte di Pisa andando a Lucca; ma questa piccolissima rialzatura basta per darle vista speditissima su tutto il piano, e vedo cogli occhi il Vieux Brissac, che è di là dal Reno, come si vede Siena da Montechiaro, essendoci però almeno 15 miglia italiane. Lateralmente ho dei piccolissimi colli tutti vigne, e gradatamente dietro il colle s’innalza, e finisce in selva. La casa, che qui si chiama Castello, è isolata, lontana un ottavo di miglio da un borghetto, che le resta al fianco e nascosto: onde colla sua umile miseria non dà noja all’occhio, e non volendo, non ci si passa per aver accesso al Castello. La stalla è una casetta a parte, cinquanta passi sotto al castello: sta sotto l’occhio, ma non dà impaccio. L’interno della casa è non grande, ma sufficiente: pulito all’eccesso, lietissimo, e mercè le stufe caldissimo. Io adesso le scrivo da una toretta, che ce n’è due agli angoli anteriori del Castello; in essa c’è tre finestre, e una stufetta, ed è chiara come una lanterna, e calda a segno, che ora le scrivo con una finestra aperta. La vita che fo, è questa: mi sveglio prima delle sei; piglio la lampada, e leggo, e scrivo in letto fino alle dieci. Alzato, chiamo il Segretario, e rivedo il Sallustio e le Tragedie, che son quasi finite di ricopiare. Cosí sto fino a mezzo giorno senza uscir di camera. Poi vo fare una colazioncella, poi in stalla, e a cavallo e in biroccio a far l’ozioso fino alle 4. Torno, mi do una pettinata ai pochi capelli che mi son lasciato, che sono anch’io scodato adesso per maggior comodo, e poi pranzo; mi rimetto al caminetto, penso agli amici, scrivo alla Signora, leggo qualche libro di poca applicazione; alle otto, e prima, torno in stalla a vederli mangiare, parlo col buon Cavalier Achille, bado alla casa, ragiono col Giannino della biada, del fieno ecc., e alle nove sono a letto.

In questa uniformità di vita passo i miei giorni, e non desidero però nessun piacere, né romore della città: altro non desidero, che la Signora, e poi lei, e la Teresina, e l’abate di Torino; e quel nostro unico, e grande, cui non posso desiderar piú, per l’impossibilità di rivederlo mai. Ma sto con lui spesso, e vo leggendo di quei suoi scritti, e in questa mia solitudine, in cui spero che mi tornerà l’ingegno, e che mi si ripurgherà il cuore, che sempre le città, e il mondo lo guastano, in questa mia solitudine certo verrà il giorno, che pensando dell’amico, potrò fare per lui qualche composizione, che non sia indegna né di lui, né di me.

Ecco finisco questa mia lunga lettera, in cui se io sono stato minuto oltre il solito, e forse oltre il dovere, me lo perdoneranno lor signori: l’ho fatto, perché giudicando di loro da me, so quanto è dolce il saper degli amici lontani anche le piú minime cose. Son tutto loro. S’amino, e m’amino, e mi scrivano. Ci rivedremo certo un giorno, e ne passeremo, spero, parecchi, e forse degli anni, insieme.[4]

Come i paesaggi cosí gli affetti, le relazioni sentimentali vivono in questo continuo impasto di quotidiano bonario e di fermenti piú vigorosi, d’agio autobiografico e di ritmo di vita intima, ed alla squisita misura settecentesca («Padron Colendissimo») un po’ rigida e un po’ festosa, ma spesso troppo accademica o troppo bernesca, aggiungono una misura intima riguardosa, pudica, che dà risalto alle espressioni affettuose, alle confessioni piú intime. Qui affetti, senso della società e della solitudine sono contenuti senza rigidezza in una sfera nativa e in una misura estremamente educata e insieme semplice, ove convenienza e passione perdono le loro punte frivole o brutali e una serietà, una sicurezza virile preparano toni piani e densi, in cui poi erompono, con maggior forza, le rare espressioni dell’animo profondo, del dolore di solitudine, del senso della morte, dello sdegno contro i tempi bassi, del bisogno di valori intatti, di relazioni sentimentali che salvino dalla solitudine in cui il poeta si rinchiude contro la mediocrità e la viltà.

Sono soprattutto indicative, per questa zona una volta meno calcolata negli studi alfieriani, le numerose lettere (il gruppo piú compatto e piú bello di tutto l’epistolario) dirette ai senesi Mario Bianchi e Teresa Regoli Mocenni (la madre di Quirina, la «donna gentile» del Foscolo), scritte fra il 1784 e il 1796.

Cosí sono esemplari le lettere alla madre, tenere e rispettose, con un tono squisito di condiscendenza amorevole che frena qualche desiderio di scatto e di rimprovero sino a fingere, per pietà filiale, un atteggiamento religioso non suo[5].

Ecco nella direzione di una misura squisita e d’una rara maturità sentimentale, nel giro perfetto d’una soluzione umana e stilistica di una difficile situazione, la lettera ad Alba Corner Vendramin:

Scrivere per affliggerla non ho il coraggio, né la durezza; per ingannarla non ho viltà; per consolarla, o lusingarla poco mi amerebbe e meno mi stimerebbe ella stessa se io lo potessi fare.

Che le posso dunque io dire altro, se non che da sei anni in qua ella è la donna sola ch’io sia stato costretto a fuggire; e che m’abbia lasciato sorger il pensiero ch’altra donna esistesse al mondo che la mia. Ogni mia espressione oltre questa le parrà, e sarebbe, insipida e fredda, e nojosa per lei. Finisco dunque con assicurarla, ch’io non confondo lei con nessuna altra donna, e che mi rimarrà bene in capo sempre la rara serie delle sue amabili qualità. La vedrò al teatro; ma dovendo io partire domattina per tempo, non ci potrò star tardissimo, stante che da due notti quasi non dormo per il gran romore che c’è in questa maledetta locanda. Se non al teatro la vedrò prima al caffè; cercherò insomma di lei, e sarà pensier mio il trovarla.[6]

Ma, ripeto, sono soprattutto indicative, per questa zona meno esplorata dagli studi alfieriani, le numerose lettere ai ricordati amici senesi.

C’è in queste una continuità di tono nell’agio di una amicizia divenuta cara abitudine, impiantata su di una gradevole somiglianza di situazione sentimentale, e quasi su di un mito nostalgico, Siena, e su di un legame al ricordo dell’amico piú amato, al saggio e sensibile Francesco Gori Gandellini: il destinatario della dedica della Congiura de’ Pazzi, l’eroe del dialogo La Virtú sconosciuta, ma piú ancora, in queste lettere e in questo tono piú familiare, e non meno intenso, il «Checco», l’amico disceso precocemente nella tomba quasi per un disdegno dei tempi e legato, nel ricordo, alla comprensione e al gusto di essenziali elementi della vita di uomini «bennati»: amore, amicizia, paesaggi, poesia. Sí che, in una lettera pisana dell’8 luglio ’85 al Bianchi, il chiaro suono di elegia, di malinconia pensosa e tenera (ma non della tenerezza pindemontiana o bertoliana) porta ad avvii poetici su questo tema dell’amico scomparso, della ricordanza triste, dolce e non disperata che sorregge cosí bene il ritratto dell’Alfieri delle Rime e arricchisce l’humus sentimentale da cui nascono alcune grandi figure delle stesse tragedie nei loro momenti piú stanchi e abbandonati:

Amico Carissimo. Grazie al cielo, qui è piovuto, e piove tuttavia, talché il tempo è moltissimo rinfrescato, e fin ora non mi posso dolere del caldo di Pisa: ed i giorni che è stato il piú, l’ho sentito assai meno che in Firenze; c’è quel Maestrale periodico, che non manca all’undici mattina, e rattempra maravigliosamente l’ardor del Sole. La mattina, e sere, poi è freddo adirittura, ed io non ho lasciato ancora mai l’abito di panno. Fo la mia solita vita, d’alzare alle 4, e godo moltissimo di quella vista di campagna al levar del Sole: cosa, credo, che a lei, fuorché per la coppiola, non succede mai. Sto tuttavia sulle mosse per andar a Lucca, e a’ Bagni, ma non mi so muovere, e credo che non ci anderò: neppure a Livorno ho il coraggio d’andare, dove vorrei vedere quella nave del Re; e noti che ogni giorno fo 15, o 20 miglia a cavallo, ma torno a casa: son uomo, o per dir meglio bestia d’abitudine, e non la posso rompere se non col farmi violenza. Vorrei esser con loro, e non vorrei lasciare queste mie bestie, che sono insomma il mio unico sollievo, e ora che cavalco tante ore piú, ci ho preso piú affetto. Ce ne andiamo io, e il Cavaliere soletti la mattina, e poi la sera in biroccio: alcune volte alla comedia, altre ai Bagni da quella Genovese malata, e fra giorno dormo assai, leggo poco, e correggo le Tragedie; sono all’Ottavia ora, e mi restan delle stampate quelle tre ultime sole. Penso spessissimo a Checco nelle mie passeggiate mattutine, e dico: questo luogo gli piacerebbe, questa città, questo fiume; e poi piango, e poi leggo il Petrarca, che ho sempre in tasca; penso alla Donna mia, e ripiango, e cosí tiro innanzi, e desidero la morte, e mi spiace di non aver ragioni per darmela: e in quel mezzo di stato dolente, e non disperato, ho l’anima morta, e il cuore sepolto, e non riconosco me stesso.[7]

Che è oltre tutto un avvio importantissimo di prosa preromantica, valida quanto quella del furore e del piglio rivoluzionario della Tirannide o del Principe e delle Lettere; cosí come la malinconia di questa pagina sofferta, limpida, attenta, non è meno disponibile per la poesia delle malinconie terribili di cui ci parla la Vita.

In quelle lettere, da contesti sempre ariosi e poco tesi, si staccano inaspettate mosse festose e nostalgiche, rapidamente abbandonate per paura di eccesso. Come poi da pagine piene di descrizioni appena accennate di gite, di lavoro, di rappresentazioni o di incombenze per librai e per dolcieri, salgono ricordi piú teneri, scatti di umori e, piú in profondo, le espressioni piú vive del suo sostanziale male di vivere, della sua insofferenza dei limiti posti dalla vita, pure amata nelle sue offerte meno vistose, piú elementari ed eterne.

Cosí, quando in una lettera del 25 maggio 1785 rompe un seguito di notizie con righe rapide e di estrema semplicità («Sto bene; son tristissimo, e solo nel mondo»[8]), o quando, in quest’aria di intesa di fini amanti, in uno stile di idillio domestico robusto e affettuoso, in cui ogni eco profonda si allarga con maggiore efficacia, leggiamo frasi come queste del 9 aprile 1786:

[...] e mi si arricciano i capegli sempre ch’io penso al pericolo che si corre quando si vive in altri come facciam noi; ma anche cosí prezioso, e unico dono della Natura di poter vivere amando riamato, non si può mai mai comprar caro abbastanza: e guai a chi non lo sente [...][9]

o del 20 dicembre ’84:

Non le dico altro, perché sto troppo addolorato, e solo nel mondo; mi saluti la Teresina caramente; e beato lei che ogni giorno può pur vederla, e contarle i suoi guai, e sentire i suoi. Sola dolcezza nella vita: il resto è morir continuo.[10]

si ha la conferma di una intensità sentimentale di rara potenza e di rara sincerità, in cui il mondo poetico alfieriano trova le sue radici piú sicure con i suoi furori libertari, con la sua poesia dell’urto titanico ed eroico e con quella robusta mestizia che permea i suoi versi anche quando appaiono troppo recitati, senza spazio di sogno, in un parossismo di ardore, gelato in gesti statuari. Una densa zona di fermenti, di strati soavi e tristi, rudi e immediati, di elegia e di idillio legati ad un tono di esperienza di uomo nato per la poesia, non per la retorica, nutrí la piú alta espressione alfieriana e i motivi illustri dell’angoscia e dell’amore nascono irrigati da questa vena piú segreta e in questo terreno fecondo. Come, nella sua trasformazione da motivo vitale in motivo lirico, si conferma l’originalità del bisogno alfieriano dell’amore di fronte alla morte e alla solitudine, su cui insistono con tanta chiarezza le lettere per la morte del Gori Gandellini e per la morte del Bianchi. Si leggano queste frasi in occasione della morte del Gori, essenziali per capire la solitudine alfieriana cosí desolata e bisognosa di conforto nel campo degli affetti:

Oh Dio, io non so quello che mi dica, né faccia: sempre lo vedo, e gli parlo, e ogni sua minima parola, e pensiere, e atto mi torna in mente, e mi dà delle continue, e dolorosissime pugnalate nel core. Perdo una cosa che non si trova mai piú: un amico vero, buono, ingegnoso, disinteressato, e caldissimo. Il mondo perfido non li dà questi tali, né ve li cerco. Oh Dio, se non mi restasse un’altra cosa, che riunisce tutte le mie speranze, affetti, e disegni, io certo non vorrei sopravvivere: che di tutte le cose del mondo sono sazio, e nessun’altra dolcezza vi può essere nella vita che lo sfogo sicuro, e intero del core, reciproco, e continuo [...].[11]

E nella lettera del 15 novembre 1796, per la morte del Bianchi, la simpatia e la semplicità con cui l’Alfieri si avvicina all’animo della povera Teresa e la sua sincera commozione vengono superate in intensità dal personale orrore al pensiero della morte che spezza gli affetti (dirà il Leopardi alla natura: «Come potesti / far necessario in noi / tanto dolor, che sopravviva amando / al mortale il mortal?»[12]):

Signora Teresa Padrona Stimatissima. Il lungo silenzio mi faceva piú tremar che sperare. Onde neppure mi ardiva domandare le nuove, sapendo che le speranze eran nulle. Quindi è ch’io non ho saputo la fatal nuova che dalla di lei lettera ricevuta stamane. Altrimenti non avrei aspettato adesso a scriverle; non dirò per consolarla, che questo è impossibile, ma per accertarla del dolor mio, che è quanto possa mai essere per una persona con chi da tanto tempo non conviveva. Ma ella, Signora Teresa, mi fa veramente pietà piú assai che l’estinto, i di cui patimenti son finiti. La sua lettera mi strappa il core. Sento tutto l’orrore d’uno stato ch’io rabbrividisco solo in pensare che può essere il mio una volta. Ed oh quanto sarebbe peggiore per me, che vivo isolato da tutti, in terra straniera ed inospita, chiuso in me stesso, in me solo. Oh Dio! Spero di non restar l’ultimo; ma per altra parte posso io desiderare alla parte migliore di me stesso, uno stato ch’io non avrei il coraggio di sopportar mai? Son cose terribili; ci penso spessissimo, ci scrivo qualche volta su dei versacci, per isfogo dell’animo; ma non mi avvezzo mai né al pensiero di rimanere solo, né a quel di lasciar sola la donna mia, che anch’essa per le stesse ragioni sarebbe tanto piú infelice di quel che ora sia lei, Signora Teresa, in questo orribile momento. Se lo lasci dire: a lei restano altri legami in questo mondo: ella ha una patria, una famiglia, degli amici comuni con chi parlare e piangere il desiderato amico; e piú d’ogni cosa ella è madre, e questo è legame che dee prestar gran coraggio al soffrire, e dar col tempo dei massimi sollievi al dolore. Sicché ella vede, che noi saremmo piú assai infelici di lei in un simile caso. Ma ciò che le giova? Lo so che non giova; né altro le può giovare per ora che il parlare di Mario, e lo sfogo del pianto. Se l’uno e l’altro le piace di fare per lettera, con chi certamente la compatisce dall’intimo cuore, non tema di nojarmi, e mi scriva le pagine intere; se io sarò scarso di parole nel risponderle, non lo sarò certamente di lagrime nel legger le sue: il che per l’appunto ora mi avvenne nel ricever la lettera. Ed oppresso dal di lei dolore, e dalla possibilità del nostro consimile, finisco per ora. Si ricordi ch’ella ha degli amici e dei figli.[13]

E non solo la complessa ed essenziale geografia sentimentale dell’Alfieri nella sua vocazione poetica, nella sua destinazione letteraria già avviata chiaramente in queste lettere, che sono ben lungi dal costituire un rozzo materiale biografico, viene scavata e ripulita dalla mano di gesso retorico buttatoci sopra da una tradizione generosa ma deformante; non solo si rilevano nella loro origine piú delicata e sicura i motivi essenziali della solitudine desolata e dell’amore come disperato e caldo tentativo di uscire dalla solitudine, di varcare il silenzio che circonda l’individuo; ma assumono maggior valore, nel clima delle lettere, alcune affermazioni di irrazionalismo antiilluministico estremamente interessanti per il dramma dell’Alfieri dentro una cultura inadeguata per la sua prospettiva e teso verso una giustificazione diversa, che in lui rimase solo potentemente sentimentale e poetica. Ed anche queste affermazioni importanti per la sua rivolta contro la «filosofia dei lumi» (quell’illuminismo razionalistico e sensistico da cui pure mutuò tanti motivi, violentandoli in un senso ben lontano dalla media sistemazione culturale illuministica e dalle stesse loro linee piú profonde e decisive per la storia degli uomini) sono tanto piú vive proprio per la loro nascita non da una posizione dottrinaria o da una polemica comunque libresca, ma da una immediata freschezza di risentimento istintivo e, nelle lettere, dentro contesti semplici, piani, di conversazione confidenziale: sempre cioè nel cerchio di intatta originalità sentimentale che ci assicurano le lettere.

Cosí, in una lettera al Bianchi del 31 gennaio 1785, a proposito del giudizio in poesia (tema cosí dibattuto fra illuministi classicisti e preromantici e cosí centrale nel periodo romantico), ecco una di queste improvvise esclamazioni che non si riducono, come significato storico, al semplice scatto istintivo da cui pure nascono: «Mi farà vero piacere la Signora Teresina a dirmi tutto quello che le sarà passato per la mente nel rileggere le Tragedie ultime: sí in bene, che in male. L’avrò caro assai; e chi sa ch’io da una Donna che sente non cavi piú lumi assai, che da professori che hanno il cuor col pelo? Anzi, non c’è dubbio: buon senso, e core fanno i giudici nelle cose passionate»[14]. E su questa via della vittoria del sentimentalismo in esperienze concrete e continue, in una lettera alla Mocenni, dopo la morte del Bianchi (10 dicembre 1796), l’Alfieri scriveva delle frasi sul valore della credenza nell’immortalità in funzione del sentimento e della vita che costituiscono una viva introduzione ad una discussione romantica sulla morte e sulle illusioni, scritta da un sensista tormentato e scontento («Veder, toccare, udir, gustar, sentire; / tanto, e non piú, ne diè Natura avara»[15]):

Signora Teresa amatissima. Ricevo in questo punto la sua. Appena ho il tempo di scriverle due versi, perché la posta riparte oggi, e ho la Signora con una grave flussione di denti, il che mi lascia poco tempo. Tuttavia le voglio subito dire, che abbiamo letta la sua lunga lettera tutti due insieme al camminetto, e non l’abbiamo trovata niente lunga, perché il suo dolore è vero, è grande ed è semplice. Ci abbiamo pianto tutti due moltissimo. Son persuaso che per lei tanto è un piccolo sollievo il dare sfogo al suo cuore, e l’esser convinta che noi ci prendiamo la massima parte del suo patimento. Ma è cosa terribile il non potervi apportare rimedio, né vero sollievo. Ho visto il Vittorino, l’ho trovato cresciuto e abbellito; ci metta quanto potrà piú affetto in questo ragazzo; ha la faccia di voler esser buono, e le dovrebbe col tempo dar qualche consolazione. Tutto quello ch’ella mi ha raccontato particolareggiando su la malattia dell’amico, mi ha vivissimamente commosso, e sono sturbato troppo per potere scrivere senza far male a chi sta peggio di me. Troppe cose avrei da dire; ed una volta ci rivedremo, e se ne parlerà piú a lungo. Alcune opinioni son piú utili, e soddisfano piú il cor ben fatto, che altre. Per esempio, giova assai piú alla fantasia, e all’affetto, il credere che il nostro Mario sia col Candido, e col Gori, e che stiano parlando e pensando di noi, e che li rivedremo una volta, che non di crederli tutti un pugno di cenere. Se tal credenza ripugna alla fisica, e all’evidenza gelida matematica, non è perciò da disprezzarsi: il primo pregio dell’uomo è il sentire; e le scienze insegnano a non sentire. Viva dunque l’ignoranza e la poesia, per quanto elle possono stare insieme: imaginiamo, e crediamo l’imaginato per vero: l’uomo vive d’amore, l’amore lo fa Dio; che Dio chiamo io l’uomo vivissimamente sentente; e Cani chiamo, o Francesi, che è lo stesso, i gelati Filosofisti, che da null’altro son mossi, fuorché dal due e due son quattro. Son tutto Suo.[16]

Nell’ultima parte dell’epistolario, se prevale il tono acre e sdegnoso (in cui dignità e involuzione sentimentale nei riguardi della Rivoluzione francese, novità dell’esigenza nazionale e della concretezza costituzionale, insieme al fiele senile della xenofobia, lo rendevano insieme attuale e reazionario) come nelle lettere alla Plebe francese, al nipote Colli, al Lagrange ecc., cresce però anche un tono di saggezza in contatto con il “nuovo” Montaigne, l’abate di Caluso, e in un chiudersi della vita intorno allo studio e all’agio domestico difesi tenacemente contro ogni intrusione, intorno ad affetti essenziali gelosamente custoditi anche contro ogni retorica. In mezzo a discussioni culturali spesso bizzarre (il novizio in lettere greche!) e a riflessioni tecniche, si fan luce intuizioni sulla poesia e sulla natura del letterato che si aggiungono e spesso correggono le pagine programmatiche del Principe e delle Lettere, e che, se nascono piú svagate e staccate, risentono anche di un’esperienza piú concreta proprio fra vita e letteratura. Come nella lettera del 25 novembre 1799 al Caluso, in cui, in forme ancor vecchie e classicistiche, l’Alfieri veniva a proclamare la libertà della poesia nel suo esprimere bene, nel suo “divinizzare” ogni contenuto in quanto poesia, creazione artistica, e nell’alta libertà dello scrittore. Poesia figlia di libertà, e «del forte sentir piú forte figlia»[17], ma essa stessa libera e regina del mondo.

Del resto non vi voglio poi vedere cosí spaventato dell’impresa del lodar degnamente la Principessa. Ancorché essa non abbia fatto, o scritto cosa che la possa far viver da sé, basta che le lodi, o gli scritti parlanti di lei siano ottimi, ella vivrà in essi. Il Petrarca avrebbe eternato la sua gatta, se ne avesse voluto scrivere, quanto la sua Laura. Meglio di me voi sapete che τοῦτο γὰρ ἀϑἀνατον φωνᾶεν ἔρπει, εἴ τις εὗ εἴποι τι.[18]

O troviamo altre intuizioni e affermazioni sulla relazione fra letteratura e vita che arricchiscono intimamente il ritratto illustre del letterato naturaliter indipendente, anticortigiano, anticonformista, vivo nella lotta fra bene e male, e che legano quella figura sdegnosa e solitaria

Uom, di sensi, e di cor, libero nato,

fa di sé tosto indubitabil mostra.[19]

non ad una boria astratta, ma ad una vita poetica e pura, ad una vita di affetti essenziali, fuori della vanità e della retorica, vissuta di fronte al pensiero della morte, a quel gusto e a quella sofferenza della vita tanto sinceramente espressi in queste lettere. Ed un’ultima citazione da una lettera del 21 aprile 1800 all’abate di Caluso conferma bene questa impressione di una vita intensa e meditata dell’uomo consapevole dei termini essenziali della sua esperienza matura, senza illusioni e senza disperazioni:

Amico Carissimo. Ricevo stamane lunedí la vostra dei 16 corrente; e benché mi abbia cavato per ora dalla dolce persuasione in cui mi stava di rivedervi presto, pure mi ha fatto un sommo piacere, svelandomi la cagione dell’altra lettera, e togliendomi ogni sollecitudine che vi fosse accaduta, o stesse per accadervi alcuna cosa disastrosa, o spiacevole. Ma insomma ora che ho visto quel che è, mi sono acquetato, ed ho accresciuto, se pure era possibile, la mia stima ed il mio affetto per voi, ammirando e venerando il vostro contegno fraterno veramente, e di vero savio, che lascia il torto agli altri, e reputa per somma felicità e ricchezza la somma quiete e tranquillità dell’animo. I veri Letterati, che non fanno bottega del loro sapere, son veramente i Re di questo mondo, e le gerarchie ed i Santi dell’altro. Lo studio, ed i libri, e le dolcezze domestiche, aspettando la morte, sono veramente le sole cose che meritino d’essere considerate dall’uomo, quando ha sfogata la gioventú.[20]

Una frase che riassume tutta una vita di uomo e di letterato tra la “gioventú sfogata” e l’attesa della morte, sicuro nella sua dignità di uomo libero, non di mestierante, “re e santo”. E nel tono una calma di distacco senza gelo, di saggezza appena increspata dalla parola «morte», mossa dalla bellissima espressione finale, avvivata dalla leggera mescolanza di ironia e di ieraticità nell’accenno ai letterati “re e santi”[21].


1 Si veda in particolare G. Leopardi, Zibaldone, in Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, 2 voll., Firenze, Sansoni, 1969 (19896), II, pp. 146, 633-634, 796-799, e il primo capitolo del Parini, ovvero della gloria. Ma molti altri pensieri dello Zibaldone e dell’epistolario andrebbero citati in proposito, come si dovrebbero (per capire la forza dell’eredità alfieriana nel grandissimo Leopardi, al di là di quanto essa fruttò nel Foscolo) illustrare i rapporti Alfieri-Leopardi in sede non solo etico-politica ed esistenziale, ma di poetica o di poesia (si pensi almeno al rapporto Mirra-Saffo), per i quali rinvio al mio saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento (1962), ora in La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973, nuova ed. accresciuta ivi, 1982 (19893), pp. 157-216, ed al mio volume Lezioni leopardiane, a cura di N. Bellucci, con la collaborazione di M. Dondero, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1994, specie il cap. IV.

2 Cfr. Ad Angelo Mai, vv. 159-160; in Tutte le opere cit., I, p. 8.

3 Cfr. la lettera a Luigi Provana del 20 ottobre 1812; in L. Ottolenghi, Vita, studii e lettere inedite di Luigi Ornato, Torino, Loescher, 1878, pp. 193-194.

4 Epistolario cit., I, pp. 312-315.

5 «Ella mi domanda s’io ho buon direttore; veramente non voglio peccar d’ipocrisia col dirle ch’io abbia dei lunghi e spessissimi abboccamenti con esso; ma pure nelle occorrenze conosco, e tratto un Capuccino di nazione Corso, che è uomo di santa ed esemplarissima vita» (Parigi, 27 gennaio 1791). Epistolario cit., II, p. 53.

6 Epistolario cit., III, p. 182 (la lettera, di cui non possediamo l’autografo, fu probabilmente scritta a Venezia tra il 3 e il 16 giugno 1783).

7 Epistolario cit., I, pp. 289-290.

8 Ivi, p. 275.

9 Ivi, p. 323.

10 Ivi, p. 206.

11 Lettera a Mario Bianchi e Teresa Mocenni del 17 settembre 1784; ivi, p. 190.

12 Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, vv. 104-107; in Tutte le opere cit., I, p. 37.

13 Epistolario cit., II, pp. 191-192.

14 Epistolario cit., I, pp. 222-223.

15 Son. 17, vv. 9-10; Rime cit., p. 15.

16 Epistolario cit., II, pp. 197-198.

17 Son. 281, v. 9; Rime cit., p. 229.

18 Epistolario cit., III, pp. 41-42.

19 Son. 288, vv. 1-2; Rime cit., p. 234.

20 Epistolario cit., III, pp. 67-68.

21 Per un piú lungo esame dell’epistolario rinvio al mio saggio Le lettere dell’Alfieri (1947), ampliato come introduzione a V. Alfieri, Giornali e lettere scelte, a cura di W. Binni, Torino, Einaudi, 1949, piú volte ripubblicato.